QUALE CONVIVENZA POSSIBILE ?

“La fattoria degli animali” a cura di Alessandro Caramis

Questa rubrica (dal nome del celebre libro di George Orwell) intende affrontare fatti di rilevante attualità attraverso un taglio sociologico. Andare “oltre il pensiero” può voler dire anche andare oltre le categorie comuni di interpretazione della realtà.
Prendendo a prestito categorie e strumenti dalle scienze sociali si cercherà, manifestando apertamente i propri principi di preferenza personale, di leggere i fenomeni sociali che ci circondano con un’inedita “lente di ingrandimento” sul dibattito politico, economico e culturale odierno
.

IMMIGRATI  –  ITALIANI :

QUALE  CONVIVENZA  POSSIBILE ?

di     A L E S S A N D R O   C A R A M I S

Hina Saleem - fonte  Famiglia Cristiana

Alcuni fatti di cronaca nera, di questa stagione estiva, come l’omicidio d’onore della giovane Hina,  come la costruzione di un muro che separa gli immigrati dai residenti storici in un quartiere degradato di Padova, hanno riproposto, nell’agenda politica ed all’attenzione sociale, la questione dell’integrazione, o meglio dell’inserimento delle persone immigrate nel nostro paese.
Il tutto ha assunto ancora più rilievo in vista dell’annunciata nuova legge sulla cittadinanza italiana agli immigrati, che dovrebbe accorciare a 5 anni il periodo per richiederla e, cosa molto più “rivoluzionaria”, sostituire al principio dello jus sanguinis (cittadinanza legata all’origine e discendenza di sangue) lo jus soli (cittadinanza legata alla nascita in un territorio), e richiedendo la  conoscenza della lingua e il superamento di un esame come requisiti per essere a pieno titolo cittadini italiani.
Da più parti è scattato un “diluvio” di dichiarazioni e di affermazioni  sulla necessità, da parte dell’immigrato, di integrarsi nella nostra società, accettandone i principi,  condividendo la nostra identità nazionale (Magdi Allam), il rispetto della libertà e dell’autonomia delle donne (Ministro pari opportunità), aderendo ai valori storico-politici e culturali italiani e rinunciando alla precedente nazionalità (Galli della Loggia).
Al tutto si aggiungono una serie di dichiarazioni sul fallimento e sull’insuccesso del modello di integrazione detto “multiculturale”, associato all’esperienza britannica ed olandese che troverebbero giustificazione anche in una recente indagine realizzata  in Inghilterra.


                                                                                                                                                 Segue …>>

“La fattoria degli animali” a cura di Alessandro Caramis

Questa rubrica (dal nome del celebre libro di George Orwell) intende affrontare fatti di rilevante attualità attraverso un taglio sociologico. Andare “oltre il pensiero” può voler dire anche andare oltre le categorie comuni di interpretazione della realtà.
Prendendo a prestito categorie e strumenti dalle scienze sociali si cercherà, manifestando apertamente i propri principi di preferenza personale, di leggere i fenomeni sociali che ci circondano con un’inedita “lente di ingrandimento” sul dibattito politico, economico e culturale odierno
.

IMMIGRATI  –  ITALIANI :

QUALE  CONVIVENZA  POSSIBILE ?

di     A L E S S A N D R O   C A R A M I S

Hina Saleem - fonte  Famiglia Cristiana

Alcuni fatti di cronaca nera, di questa stagione estiva, come l’omicidio d’onore della giovane Hina,  come la costruzione di un muro che separa gli immigrati dai residenti storici in un quartiere degradato di Padova, hanno riproposto, nell’agenda politica ed all’attenzione sociale, la questione dell’integrazione, o meglio dell’inserimento delle persone immigrate nel nostro paese.
Il tutto ha assunto ancora più rilievo in vista dell’annunciata nuova legge sulla cittadinanza italiana agli immigrati, che dovrebbe accorciare a 5 anni il periodo per richiederla e, cosa molto più “rivoluzionaria”, sostituire al principio dello jus sanguinis (cittadinanza legata all’origine e discendenza di sangue) lo jus soli (cittadinanza legata alla nascita in un territorio), e richiedendo la  conoscenza della lingua e il superamento di un esame come requisiti per essere a pieno titolo cittadini italiani.
Da più parti è scattato un “diluvio” di dichiarazioni e di affermazioni  sulla necessità, da parte dell’immigrato, di integrarsi nella nostra società, accettandone i principi,  condividendo la nostra identità nazionale (Magdi Allam), il rispetto della libertà e dell’autonomia delle donne (Ministro pari opportunità), aderendo ai valori storico-politici e culturali italiani e rinunciando alla precedente nazionalità (Galli della Loggia).
Al tutto si aggiungono una serie di dichiarazioni sul fallimento e sull’insuccesso del modello di integrazione detto “multiculturale”, associato all’esperienza britannica ed olandese che troverebbero giustificazione anche in una recente indagine realizzata  in Inghilterra.


                                                                                                                                                 Segue …>>

Da essa risulterebbe che  l’80% dei cittadini britannici, di origine immigrata, si sente prima musulmano che cittadino britannico, e che un terzo di loro sarebbe favorevole all’introduzione della sharia. Il tutto in un paese che ha subito, nel proprio suolo, il più terribile attacco terrorista dalla fine della seconda guerra mondiale, ad opera di cittadini britannici immigrati di terza generazione, e che ha esportato il suo modello anche in Olanda, dove il regista Theo Van Ghog è stato ucciso per il film “Submission” da un giovane fanatico islamico.. 
Come non ricordare anche la pubblicazione delle vignette satiriche e di quello che hanno scatenato?
Allo stesso modo anche il modello francese sembra non godere di buona salute. Gli eventi delle banlieus ed il fenomeno dei casseurs ,uniti ai persistenti atti di antisemitismo e di xenofobia, ci hanno tolto anche l’immagine di una Francia  il cui modello, definito “integrazionista”, ha mostrato i suoi limiti.

Ma insomma, questi due modelli portati ieri come esempio cosa sono? Sono importabili nel nostro paese? E si può parlare veramente del loro fallimento? Un dato: il modello “assimilazionista” francese e quello “multiculturale” britannico non cadono dall’alto ma nascono modellandosi su specifiche realtà storico – politiche delle rispettive società nazionali.
Il modello “multiculturale” si basa essenzialmente sul rispetto e sulla promozione di tutte le espressioni culturali di ogni gruppo etnico-culturale (sia autoctono che immigrato). Il modello è stato per anni promosso da una certa cultura di “sinistra” che lo ha ritenuto il miglior modo per lottare contro le discriminazioni verso gli immigrati, ai quali è stata riconosciuta pari dignità di espressione e di manifestazione della loro cultura, nel rispetto della leggi del paese di residenza.
Amartya Sen - nobelprize.orgQuesto modello ha mostrato i suoi limiti confondendo come dice Amartya Sen :” la libertà culturale con l’impegno a contrastare l’adesione automatica alle tradizioni quando le persone (compresi i giovani) ritengono giusto cambiare il loro modo di vivere (…) la prima confusione è tra conservatorismo culturale e libertà culturale (…) la seconda confusione risiede nell’ignorare il fatto che mentre la religione potrebbe essere un elemento di identità importante ci sono altre affiliazioni e associazioni – politiche sociali ed economiche a cui le persone danno valore”. La cultura non è limitata alla religione. Quindi, come afferma giustamente Sen, il multiculturalismo, così inteso, rischia di diventare “pluralità di mono-culturalismi”.
Ian Buruma - fonte Suny OrangeAnche Ian Buruma evidenzia l’aspetto reazionario dietro al quale può nascondersi il multiculturalismo, quando si concede troppo potere ai capi delle comunità (leader etnici o religiosi) che trasformano questi leader delle minoranze più indifese un po’: “ come i capi delle gang criminali e difatti tali organizzazioni che seguono specificità etniche, spesso dichiarano di difendere gli interessi degli immigrati più recenti. Ma quale italo-americano o anglo-cinese di seconda o terza generazione vorrebbe essere rappresentato dalla mafia o dalle triadi cinesi?
Il problema del modello multiculturale, a mio avviso, non è solo di natura culturale bensì diventa sociale e territoriale in senso stretto, per cui si creano dei “ghetti” o quartieri ad unica composizione etnico-confessionale – identitaria tali da sfavorire le occasioni di contatto e comunicazione inter-culturale. Le occasioni di scambio, i prestiti,  il “meticciato” tra le persone e le culture di cui sono portatrici si riducono ed il bene comune, l’interesse generale, la convivenza e la costruzione di valori e i principi collettivi tendono a svanire.

L’altro modello è quello “integrazionista” o “assimilazionista” francese. In questo modello tutti i cittadini sono uguali,  indipendentemente dall’origine razziale o etnica, dalla lingua o dalla religione. Tutti possono diventare cittadini francesi basta che accettino i valori “libertè, egalitè, fraternitè, si “assimilino” al modello laico e centralistico di Stato, riconoscendosi nei valori della Repubblica e grandeur francese. Tale modello, però, non riconosce espressione pubblica (pur garantendone l’espressione privata) ai particolarismi culturali, religiosi o identitari dei vari gruppi umani
Questo modello sembra quello a cui si ispira una certa cultura di “destra” in Italia, come le affermazioni sopra riportate dimostrano, quindi, chiunque può diventare cittadino italiano purché riconosca e accetti i valori fondanti l’italianità, “assimilandosi” ad essi e rinunciando alle sue precedenti identità . Questo modello, però, già in Francia, ha mostrato alcune “crepe”sia per motivazioni di ordine culturale che di ordine sociale.
Le prime sono esplose in seguito alla recente legge che fa divieto dell’utilizzo dei simboli religiosi (croci,  kippà, velo) nelle scuole; le seconde hanno riguardato la ribellione dei giovani casseurs che hanno dato fuoco a molte auto e si sono scontrati più volte con la polizia nelle banlieus parigine.
La laicità di Stato oggi, in Francia, costituisce un problema. Non solo per i cittadini di religione musulmana ma anche per i cattolici e gli ebrei. Il centralismo di Stato ed i valori della Repubblica si trovano in difficoltà nel negare rilevanza ai localismi corsi, bretoni, provenzali e ad altri che richiedono pari dignità e riconoscimento culturale senza assimilarsi in tutto e per tutto alla Repubblica francese.  E qui si parla di lingue, di musiche, di tradizioni popolari  e di spirito religioso pre-repubblicano che connota molte parti della Francia.

banlieues - fonte Times

Il problema di ordine sociale consiste nel fatto che in molti casi i valori della Repubblica valgono solo sulla carta. In Francia non tutti i cittadini sono uguali perché alcuni sono più uguali degli altri (come nel libro “La Fattoria degli Animali” – Orwell). Se un francese ha un cognome di origine algerina o altro probabilmente non troverà lavoro (e neanche potrà essere giornalista alla TV pubblica con tranquillità). I disordini delle banlieus non sono dovuti ad uno scontro di civiltà (come molti fondamentalisti sperano) ma sono dovuti ad un problema di esclusione e di marginalità sociale che generazioni di immigrati vivono sulla loro pelle, confinati in maniera “coatta” in squallidi quartieri di periferia, abbandonati dalle Istituzioni (salvo le violente retate della polizia), dai servizi sociali e dall’attenzione dei politici. La loro protesta è di natura sociale non culturale. Quello che chiedono è di essere cittadini francesi come gli altri e non meno degli altri. E’ ovvio che nel caso di persistente assenza delle Istituzioni  saranno i leader locali (soprattutto religiosi) a catturare l’attenzione dei giovani ribelli e quindi a poter trasformare il conflitto sociale anche in conflitto culturale.

I modelli esposti non sono falliti in toto ma hanno presentato dei problemi con il cambiare delle circostanze storiche.
Un dato è quello dell’importanza di concetti come etnia- cultura e religione, che oggi sono diventati centrali per molte giovani generazioni di immigrati (ma anche di autoctoni) più che per i loro stessi padri.
Z. Bauman - ahrb centerIl motivo è legato a quello che il sociologo Z. Bauman chiama “voglia e domanda di comunità”. Oggi viviamo tutti un una situazione di incertezza, di insicurezza sociale, di inquietudine. In assenza di grandi associazioni di riferimento collettivo come partiti, sindacati, ecc., le persone tendono a chiudersi entro gruppi dai confini più ristretti di quelli nazionali. Ecco il localismo, il regionalismo, le leghe, i ghetti identitari-etnico-nazionali.
Bauman parla di “voglia di comunità” intesa come voglia di sicurezza (fino ad arrivare alla sicurezza fai da te senza e contro le istituzioni). Il secondo punto  è che questi gruppi, oggi,  tendono a definirsi secondo appartenenze etnico-culturali oppure territoriali o confessionali perché l’identità di classe o ideologica (e anche di genere direi) ha perso rilevanza. Le persone trovano maggiore significato in queste identità che  tendono ad essere concepite come statiche, immobili, prive di scambi ed interazioni con l’alterità. Questo andrebbe evitato, anche se a rafforzare questo concetto c’è innanzitutto una situazione di marginalità, di degrado sociale – urbano e di esclusione, che molti gruppi di immigrati tendono a vivere nel quotidiano. E questo non fa che rafforzare quelli che Buruma chiama i “boss locali”.

Allora  quale convivenza è possibile?
Innanzitutto quella che combatta l’esclusione e la marginalità sociale. Non è solo un passaporto a far diventare cittadini. Inoltre la cittadinanza non è un qualcosa da leggere solo sulla carta. E’ anche un concetto limite da inverare continuamente nella quotidianità.
Parlare di assimilazione ai nostri valori é tanto giusto quanto un bel principio astratto, se non si sanno bene a quali valori integrarsi (quelli della Resistenza? del Risorgimento? quelli cattolici? quelli dell’illuminismo? della Costituzione? ecc)  e soprattutto chi è deputato a portarli avanti. L’integrazione non è un processo in cui ci sono “attori” attivi che devono integrarsi e attori passivi che assistono come semplici spettatori a tale processo. La costruzione di una società in cui prevalga un minimo comune denominatore di convivenza, di principi comuni, di interessi generali è un processo che non sta solo nella carta ma ha bisogno di essere inverato e realizzato nella quotidianità da tutti, immigrati ed autoctoni compresi. Le conquiste politiche, civili e sociali che abbiamo avuto in Italia, a prezzo di guerre di liberazione, scioperi, contestazioni , disobbedienze civili e faticose conquiste, non sono date una volta per tutte, sia perché gli orientamenti neo-conservatori tendono ad annullarle e sia perché nuovi diritti politici sono da conquistare, nuovi diritti civili sono da ottenere e nuovi diritti sociali sono da realizzare.
Gli italiani saranno tali anche dall’esito di queste conquiste. Unire la “lotta” per il riscatto delle donne immigrate con il combattere la pratica delle mutilazione genitali femminili, o l’usanza dei matrimoni forzati, legare inoltre tali battaglie alla lotta contro le violenze di cui sono vittime anche le donne italiane  (il 90% degli stupri avviene tra le mura domestiche) ed a quelle per i nuovi diritti civili (sulla maternità scelta e responsabile, sulla fecondazione assistita, sulla pillola del giorno dopo, sulla RU486)  è un modo per creare una rinnovata coscienza femminile contro una cultura che vuole e percepisce le donne come “oggetto” e non come “soggetto”, come persone umane dotate di autonomia e dignità. Le lotte per i diritti umani potranno essere il “collante” che accomuna donne autoctone e donne immigrate. E questo è solo un esempio.
Nel caso della separazione tra peccato e reato, tra sfera religiosa e sfera politica, tra norma morale (o religiosa) e norma politica, il conflitto non è tra cattolici contro islamici bensì tra una visione laica dello Stato ed una integralista e confessionale. Rivendicare scuole confessionali private, come fanno alcuni gruppi fondamentalisti islamici, ed allo stesso modo rivendicare finanziamenti alle scuole cattoliche private in nome della libertà di insegnamento non aiuta l’integrazione bensì favorisce la separazione tra le comunità, le religioni, le persone. Rivalutare il ruolo pubblico e laico  della scuola (prima palestra di integrazione) è fondamentale per tutti ed a questo possono partecipare italiani autoctoni ed italiani immigrati che hanno a cuore la funzione pubblica della scuola..

Infine tollerare quartieri degradati socialmente ed urbanisticamente, in cui si creano dei “serbatoi” di manovalanza criminale”, delle zone al margine in cui prospera la criminalità, lo spaccio e l’illegalità non aiuta gli italiani autoctoni nè tanto meno quelli immigrati. Intraprendere azioni di comunità e mobilitarsi per avere migliori e decenti servizi sociali e culturali, così come implementare politiche di riqualificazione urbana è un operare che invece di creare  barriere e “ghetti” tra italiani e immigrati, tra ricchi e poveri, tra inclusi ed esclusi crea “ponti” e percorsi comuni verso una cittadinanza comune. La contesa non è quindi tra “noi” e “loro” bensì tra insiders  (chi è dentro la città) ed outsiders (chi è fuori la città).
Tale discorso può essere esteso ad altri campi (compreso quello del mondo del lavoro). Questo per dire che non basta sottoporre ad un esame i nuovi italiani per accertare una reale integrazione, in quanto quest’ultima, o meglio, l’inserimento degli immigrati in Italia è un processo lungo, complesso e altrettanto “stimolante” che deve sì guardare alle esperienze degli altri paesi, senza tuttavia mettere da parte la specificità italiana e la nostra situazione storico-politica.
Più che modello multiculturale o modello integrazionista preferirei parlare di inter-cultura. Le situazioni che ho citato sono occasioni di comunicazione interculturale che non si limitano ad uno scambio di informazioni bensì creano contatti, meticciati, incroci culturali capaci di nuovi sviluppi  e soprattutto creano comunità inter-etniche ed inter-culturali capaci di con-dividere valori, un sentire comune ed un agire comune tale da creare il senso di una lucidità condivisa, di una piena cittadinanza.

Franco Ferrarotti

Al riguardo mi sembrano illuminanti le parole di Franco Ferrarotti con le quali concludo tale riflessione: “La semplice, nuda verità è che vivere significa convivere. Fra i gruppi umani e gli individui, la questione fondamentale non si esaurisce mai nel vincere, ma nel convincere. Non siamo né assolutamente liberi né assolutamente dipendenti, ma inter-dipendiamo.
Ci muoviamo in base a nostre iniziative, che corrispondono ai nostri interessi. Ma l’interesse che ci muove non è mai semplicemente economico o politico o psicologico.
E’ un inter-esse, uno stare, un trovarsi insieme
”.

Fonti e testi consigliati:

Franco Ferrarotti:  L’enigma di Alessandro – Donzelli Editore
Z. Bauman:  Voglia di comunità – Laterza Bari

ALESSANDRO

CARAMIS

Nasce a Roma il 16 Novembre del 1977.
Si è lauerato in Sociologia nel 2001 con una tesi sul lancio editoriale di J.R.R. Tolkien in Italia grazie alla quale ha fatto da consulente alla Bompiani RCS.
E’ amante della musica jazz e blues, del buon cinema europeo ed americano e dei viaggi.
Si dichiara bibliofilo e ama tenersi costantemente informato sui fatti del mondo e della società.
Cura una personale raccolta di articoli di carta stampata dal 1999.
Attualmente vive ai Castelli Romani e collabora come assistente alla Facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza di Roma.

mikronet

Lascia un commento