VICENZA ED ALTRE CONTESTAZIONI LOCALI
“La fattoria degli animali” a cura di Alessandro Caramis
Questa rubrica (dal nome del celebre libro di George Orwell) intende affrontare fatti di rilevante attualità attraverso un taglio sociologico. Andare “oltre il pensiero” può voler dire anche andare oltre le categorie comuni di interpretazione della realtà.
Prendendo a prestito categorie e strumenti dalle scienze sociali si cercherà, manifestando apertamente i propri principi di preferenza personale, di leggere i fenomeni sociali che ci circondano con un’inedita “lente di ingrandimento” sul dibattito politico, economico e culturale odierno.
Prendendo a prestito categorie e strumenti dalle scienze sociali si cercherà, manifestando apertamente i propri principi di preferenza personale, di leggere i fenomeni sociali che ci circondano con un’inedita “lente di ingrandimento” sul dibattito politico, economico e culturale odierno.
S I N D R O M E N I M B Y
O D O M A N D A D I D E M O C R A Z I A ?
di A L E S S A N D R O C A R A M I S
Gli ultimi avvenimenti in merito all’allargamento della base americana di Vicenza hanno riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica le proteste che una comunità locale mette in atto ogni qual volta il proprio territorio viene scelto come sito per la localizzazione di un impianto, di una struttura, una centrale, ecc.
Quello che sta accadendo oggi a Vicenza non ha niente di nuovo da quello che sta accadendo da un po’ di anni a questa parte. Si moltiplicano in tutta Italia a macchia d’olio i “comitati per il no” che si oppongono alla costruzione di tunnel (Brennero), autostrade, TAV (Val di Susa), ponti (Stretto di Messina), dighe mobili (Venezia), termovaloriozzatori (Acerra) nuove centrali a carbone (Civitavecchia), scorie nucleari (Scanzano Ionico). Le proteste non riguardano solamente impianti ed interventi funzionali all’industria o ad interessi economici bensì manifestano l’opposizione anche verso nuovi impianti ad energia rinnovabile per combattere l’effetto serra come l’eolico.
Cosa sta succedendo? I mass media parlano a proposito di sindrome Nimby.
Nimby è un acronimo che significa “Not in my backyard” (Non nel mio giardino) è indica qualsiasi posizione di chi in linea di principio è favorevole alla costruzione di un impianto necessario alla società ma è contrario al fatto che esso si realizzi nel proprio territorio, nel proprio “habitat”, dietro il proprio “giardino di casa”.
Per esempio, siamo tutti favorevoli all’energia eolica purchè non si facciano quei giganti impianti che “rovinano tanto il nostro bel paesaggio”, siamo favorevoli ad avere la corrente elettrica e l’elettricità purchè non si facciano impianti nel nostro territorio, siamo favorevoli ad abolire le discariche purchè non si facciano termovalorozzatori nel nostro suolo, siamo favorevoli ad agevolare la mobilità pubblica purchè non si facciano passare treni ad alta velocità nelle nostre campagne, ecc..
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“La fattoria degli animali” a cura di Alessandro Caramis
Questa rubrica (dal nome del celebre libro di George Orwell) intende affrontare fatti di rilevante attualità attraverso un taglio sociologico. Andare “oltre il pensiero” può voler dire anche andare oltre le categorie comuni di interpretazione della realtà.
Prendendo a prestito categorie e strumenti dalle scienze sociali si cercherà, manifestando apertamente i propri principi di preferenza personale, di leggere i fenomeni sociali che ci circondano con un’inedita “lente di ingrandimento” sul dibattito politico, economico e culturale odierno.
Prendendo a prestito categorie e strumenti dalle scienze sociali si cercherà, manifestando apertamente i propri principi di preferenza personale, di leggere i fenomeni sociali che ci circondano con un’inedita “lente di ingrandimento” sul dibattito politico, economico e culturale odierno.
S I N D R O M E N I M B Y
O D O M A N D A D I D E M O C R A Z I A ?
di A L E S S A N D R O C A R A M I S
Gli ultimi avvenimenti in merito all’allargamento della base americana di Vicenza hanno riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica le proteste che una comunità locale mette in atto ogni qual volta il proprio territorio viene scelto come sito per la localizzazione di un impianto, di una struttura, una centrale, ecc.
Quello che sta accadendo oggi a Vicenza non ha niente di nuovo da quello che sta accadendo da un po’ di anni a questa parte. Si moltiplicano in tutta Italia a macchia d’olio i “comitati per il no” che si oppongono alla costruzione di tunnel (Brennero), autostrade, TAV (Val di Susa), ponti (Stretto di Messina), dighe mobili (Venezia), termovaloriozzatori (Acerra) nuove centrali a carbone (Civitavecchia), scorie nucleari (Scanzano Ionico). Le proteste non riguardano solamente impianti ed interventi funzionali all’industria o ad interessi economici bensì manifestano l’opposizione anche verso nuovi impianti ad energia rinnovabile per combattere l’effetto serra come l’eolico.
Cosa sta succedendo? I mass media parlano a proposito di sindrome Nimby.
Nimby è un acronimo che significa “Not in my backyard” (Non nel mio giardino) è indica qualsiasi posizione di chi in linea di principio è favorevole alla costruzione di un impianto necessario alla società ma è contrario al fatto che esso si realizzi nel proprio territorio, nel proprio “habitat”, dietro il proprio “giardino di casa”.
Per esempio, siamo tutti favorevoli all’energia eolica purchè non si facciano quei giganti impianti che “rovinano tanto il nostro bel paesaggio”, siamo favorevoli ad avere la corrente elettrica e l’elettricità purchè non si facciano impianti nel nostro territorio, siamo favorevoli ad abolire le discariche purchè non si facciano termovalorozzatori nel nostro suolo, siamo favorevoli ad agevolare la mobilità pubblica purchè non si facciano passare treni ad alta velocità nelle nostre campagne, ecc..
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I principali commentatori ed opinionisti ripresentano anche la solita divisione della società italiana tra “modernisti” e “anti-modernisti”. Tra i primi rientrerebbero coloro che sono per una modernizzazione del Paese ai fini di una maggiore innovazione delle nostre infrastrutture mentre tra i secondi non ci sarebbero che coloro che dicono sempre “no” a qualsiasi novità, che coltiverebbero la conservazione ed il particolarismo praticando (con blocchi illegali, proteste e manifestazioni) un potere di veto contro qualsiasi opera che abbia un interesse generale.
Quello che intendo sostenere in questa rubrica è che (pur se per alcuni aspetti queste considerazioni possono trovare qualche corrispondenza nella realtà) la questione centrale resta un’altra.
Queste proteste e questi “comitati per il no” non si giustificano solamente con la cosiddetta sindrome Nimby, né tantomeno con un certo anti-modernismo presente nelle comunità locali.
La materia centrale che propongo di mettere al centro dell’attenzione consiste nel fatto che nelle società post-moderne e post-fordiste di oggi il “locale” è diventato un terreno anzì, il vero terreno di scontro.
Come dice il sociologo Magnaghi i problemi attuali dello sviluppo richiedono necessariamente di prendere in considerazione il contesto locale. Il territorio è diventato il vero “valore aggiunto” nella nuova competizione capitalistica internazionale. Questo lo riscontriamo nel fatto che mai come oggi si è data così tanta attenzione, ai fini di uno sviluppo economico, al contesto territoriale nel quale si muovono le imprese. Il patrimonio culturale, le conoscenze tecniche di un luogo, le sue infrastrutture fisiche e comunicative, il capitale umano e sociale, le risorse “tipiche” sono diventati, nella attuale società post-fordista, i fattori che possono contribuire allo sviluppo di un distretto, di un sistema turistico, agricolo, tecnologico e industriale.
Questo fenomeno è da riconnettersi anche con il riemergere dei localismi, del movimento delle piccole patrie, dei bio-regionalismi.
Così mentre nel novecento al centro dell’attenzione vi era il lavoro ed il capitale (che costituivano anche il centro dell’identità e del senso di appartenenza delle persone) oggi il territorio ed il locale assumono una nuova centralità ri-configurando appartenenze e identità di persone, gruppi sociali, movimenti politici.
Così come per tutto il novecento il conflitto ideologico e sociale avveniva sulle modalità di gestione e di appropriazione del lavoro e del suo valore aggiunto che era il “capitale” (come ci ha descritto Marx nella sua opera più importante “Il Capitale”) oggi i nuovi conflitti che si presentano, non solo in Italia ma in tutta la scala globale, hanno come principiale terreno di scontro le modalità di gestione e di appropriazione del territorio.
Questo è il filo rosso che lega fenomeni come la recente protesta contro l’ampliamento della base militare di Vicenza, al movimento di contestazione “No-Tav” in Val di Susa, fino ad arrivare anche al recente rapimento dei due italiani in Nigeria.
Becattini ci induce a leggere questo cambiamento come il passaggio dalla “coscienza di classe alla coscienza di luogo”. Egli dice: ”la coscienza di luogo allude al riconoscimento da parte della comunità insediata del valore del patrimonio territoriale nella produzione di ricchezza durevole e di nuovi processi di autodeterminazione. La forma (esogena o endogena) di appropriazione del valore aggiunto territoriale diviene l’oggetto del conflitto”.
La questione non è tanto tra modernisti ed antimodernisti o tra sindrome Nimby ed interessi generali. La questione è di democrazia. Chi decide questi interventi ed in quali forme?
Ogni qual volta vediamo una situazione del genere dobbiamo chiederci chi lo ha deciso ed attraverso quale modalità.
Tra le motivazioni delle proteste dei “comitati per il no” vi è anche una questione di scelte sulle modalità di gestione e di appropriazione del proprio territorio che le comunità locali sentono passare “sopra la loro testa”. Non è soltanto un problema di giusta informazione, di comunicazione dei vantaggi e dei rischi da parte dei tecnici e degli esperti verso la popolazione ritenuta “ignorante” (nel senso etimologico dl termine che ignora i vantaggi che possono scaturire da un dato intervento o da una data tecnologia). E’ un problema di scelte. Molto spesso le scelte sono prese al di fuori delle comunità locali interessate e degli stakeholders (portatori di interessi) che vivono in quel territorio.
Questa posizione è stata riassunta molto intelligentemente dal Presidente della Camera Fausto Bertinotti in un intervista al Corriere della Sera (21/01/2007): “Anche a sinistra c’è stata una diffidenza nei confronti delle comunità viste come resistenza all’organizzazione democratica della società o addirittura regressione. Luogo della tradizione e delle relazioni interpersonali, una nicchia, un’enclave. Invece, dobbiamo leggere il fenomeno comunitario con lenti nuove. E cioè come il luogo dove si costruiscono delle soggettività che possono essere tanto dei presidi di chiusura verso l’esterno, fino alle piccole patrie, quanto l’evidenziazione di nuovi bisogni e di nuove aspettative. Questo non vuol dire che ogni rivendicazione sia giusta ma è importante da quale lato la si osserva. E la politica non può continuare a guardarla con la supponenza neo-illuminista di possedere la ragione dell’interesse generale”.
Come soluzione a questi conflitti si propongono tavoli di confronto, comitati, referendum, ecc.
L’errore è che una volta che la decisione è stata già presa qualsiasi discussione appare essere priva di senso. Diventa soltanto il modo per sfruttare politicamente l’evento da parte di politici locali, partiti di “lotta e di governo”, leader locali con aspirazioni nazionali. L’impasse prodotto genera immobilità e di conseguenza, sia che una decisone venga presa a favore o che venga bloccata, non risolve la materia del contendere che si ripresenterà in altri luoghi oppure anche nello stesso territorio.
Le popolazioni locali non vanno coinvolte con comitati, referendum, tavoli ex-post, dopo che una decisione sia stata presa bensì ex-ante, ovvero alle origini del processo decisionale.
Dice Gaetano Borrelli (sociologo ENEA): “Gli eventi di Scanzano e della Val di Susa insegnano che la gestione dei rischi tecnologici, ed industriali in genere, nelle nostre società richiede il coinvolgimento del pubblico. Affinché questo coinvolgimento abbia un senso, occorre che i cittadini siano coinvolti fin dall’inizio del processo decisionale e che siano adeguatamente informati. In altre parole, non bisogna mettere la gente di fronte al fatto compiuto o ad alternative già prefissate o non realmente tali, né distribuire depliant illustrativi e saggi arcani comunque difficili da comprendere e tali da scoraggiare di fatto lo sforzo di apprendimento ed approfondimento necessario, provocando, invece un senso di emarginazione o manipolazione”.
La vera posta in palio riguarda le decisioni sulle modalità di gestione e di appropriazione inerenti il proprio territorio. Occorre percorrere la via tecnocratica oppure la via democratica? Le decisioni sul cosa, come, quando e dove produrre certe impianti o certe tecnologie debbano essere prese in maniera top-down (dall’alto verso il basso ) o in maniera bottom-up (mediante percorsi partecipativi che partano dal basso verso l’alto)?
Per concludere, occorre rompere e superare la dicotomia modernisti/antimodernisti, global/no-global, nimby/non nimby. Una linea ad alta velocità, una centrale a carbone pulito, un’autostrada, centrali eoliche, termovalorizzatori, gassificatori, ecc se saranno il frutto di un processo partecipativo e di una decisione a vasto respiro strategico da parte di una comunità locale probabilmente saranno accettate; altrimenti se le decisioni in merito verranno prese coinvolgendo solamente i tecnici, i decisori politici a livello regionale o nazionale, senza coinvolgere le comunità locali ed accollando a queste ultime tutti i rischi senza alcun vantaggio che andrà a soggetti esterni queste forme di protesta continueranno probabilmente a ripresentarsi ogni qualvolta se ne ripresenterà l’occasione.
Fonti e testi consigliati
Alberto Magnaghi, “ Il progetto locale”, Bollati Boringhieri, 2001
Alberto Magnaghi, “ Il progetto locale”, Bollati Boringhieri, 2001
Gaetano Borrelli, “La politica ambientale tra scelta e non scelta”, ENEA
Serge Latouche, “Come sopravvivere allo sviluppo” – Bollati Boringieri, 2005
ALESSANDRO CARAMIS |
Nasce a Roma il 16 Novembre del 1977.
Si è lauerato in Sociologia nel 2001 con una tesi sul lancio editoriale di J.R.R. Tolkien in Italia grazie alla quale ha fatto da consulente alla Bompiani RCS. E’ amante della musica jazz e blues, del buon cinema europeo ed americano e dei viaggi. Si dichiara bibliofilo e ama tenersi costantemente informato sui fatti del mondo e della società. Cura una personale raccolta di articoli di carta stampata dal 1999. Attualmente vive ai Castelli Romani e collabora come assistente alla Facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza di Roma. |