IL SETTEMBRE DEL 1943

A sessantaquattro anni di distanza
i ricordi di quei giorni di guerra sono sempre più vivi. 

L’omaggio poetico è dedicato a tutti quei bambini che soffrono la guerra;  e qualcuno ha visto un suo coetaneo finire come il mio compagno di giochi.   A tutte le famiglie che hanno perduto una persona cara in una delle tante battaglie che accendono il loro bagliore in ogni angolo della Terra, il mio saluto riverente e tutto l’amore che posso.

(Reno Bromuro)

BASTA 1

14 SETTEMBRE1943                                 

Interminabile colonna di carne
lungo le rive del Tammaro
in quei giorni di settembre.
Corpi, anime sozze
di pidocchi
di vergogna
occhi che non capivano
cercavano occhi vergognosi.

Uno, ai piedi di una vite
in mano, un grappolo d’uva:
– Non voglio tornare a casa! –
e piangeva.

Fetore di pelle:
non pidocchi giganti
mangiano giovane carne
non mia;
vergogna morde l’anima:
eravamo duemila
due soltanto ci hanno disarmato:
non voglio vedere mio padre!

Occhi che non capivano 
cercavano occhi vergognosi.

Dritto, sulla collina
si staglia verso il cielo
come accusatore:
uomo in grigio-verde
armato fino ai denti.

Stupore, meraviglia,
domande che s’intrecciano
risposte non avute…
Michele era armato
non sapeva perché.
Fedele al giuramento
era tornato a casa
ai padulesi non più
da ebete, da eroe.

Occhi, che non capivano cercavano
tra carne putrefatta dai pidocchi
propria carne pieni di speranza.

Un grido che sapeva
di prima liceo,
una parola petrarchesca
scosse lo stupore, l’apatia:
             «Italia mia
              vengo a vendicar 
              l’altrui vergogna!»

Ancora imberbe, armato di bastone
corse per lo scosceso pendio: gridò!.

Una scarica di mitra!…

Il volto di fanciullo
gli occhi innocenti
aperti verso il cielo
il corpo inerte
ai piedi dell’ulivo
sembrano dire: BASTA!

Occhi che non capivano, i miei,
cercavano non vergogna…

Piansero, piangono
e gridano: basta.

Reno Bromuro
(Da Occhi che non capivano
– Edizione Andromeda Roma 1973
– Edizione Ursini 1991)

NELLE  RETROVIE  DELLE  GUERRE

(Gicar) – Ci scusiamo con i lettori per la crudezza delle immagini, reperite nel web, che abbiamo voluto affiancare ai versi di Reno Bromuro.  Esse non lasciano immaginare nient’altro di più di ciò che rappresentano: ovvero quello che rimane dietro alle guerre di ogni tempo.  Sono i sogni negati ai bambini.  Di fronte a determinate realtà, talvolta, rimane davvero difficile andare “Oltrepensiero”.  Inutile nascondere questi flash legati alla perversione umana, rimuoverli dalle nostre coscienze o far finta che essi appartengano a mondi lontani.  Siano essi un monito, per gridare…   “ Basta ! ”

 

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

segue …>>


A sessantaquattro anni di distanza
i ricordi di quei giorni di guerra sono sempre più vivi. 

L’omaggio poetico è dedicato a tutti quei bambini che soffrono la guerra;  e qualcuno ha visto un suo coetaneo finire come il mio compagno di giochi.   A tutte le famiglie che hanno perduto una persona cara in una delle tante battaglie che accendono il loro bagliore in ogni angolo della Terra, il mio saluto riverente e tutto l’amore che posso.

(Reno Bromuro)

BASTA 1

14 SETTEMBRE1943                                 

Interminabile colonna di carne
lungo le rive del Tammaro
in quei giorni di settembre.
Corpi, anime sozze
di pidocchi
di vergogna
occhi che non capivano
cercavano occhi vergognosi.

Uno, ai piedi di una vite
in mano, un grappolo d’uva:
– Non voglio tornare a casa! –
e piangeva.

Fetore di pelle:
non pidocchi giganti
mangiano giovane carne
non mia;
vergogna morde l’anima:
eravamo duemila
due soltanto ci hanno disarmato:
non voglio vedere mio padre!

Occhi che non capivano 
cercavano occhi vergognosi.

Dritto, sulla collina
si staglia verso il cielo
come accusatore:
uomo in grigio-verde
armato fino ai denti.

Stupore, meraviglia,
domande che s’intrecciano
risposte non avute…
Michele era armato
non sapeva perché.
Fedele al giuramento
era tornato a casa
ai padulesi non più
da ebete, da eroe.

Occhi, che non capivano cercavano
tra carne putrefatta dai pidocchi
propria carne pieni di speranza.

Un grido che sapeva
di prima liceo,
una parola petrarchesca
scosse lo stupore, l’apatia:
             «Italia mia
              vengo a vendicar 
              l’altrui vergogna!»

Ancora imberbe, armato di bastone
corse per lo scosceso pendio: gridò!.

Una scarica di mitra!…

Il volto di fanciullo
gli occhi innocenti
aperti verso il cielo
il corpo inerte
ai piedi dell’ulivo
sembrano dire: BASTA!

Occhi che non capivano, i miei,
cercavano non vergogna…

Piansero, piangono
e gridano: basta.

Reno Bromuro
(Da Occhi che non capivano
– Edizione Andromeda Roma 1973
– Edizione Ursini 1991)

NELLE  RETROVIE  DELLE  GUERRE

(Gicar) – Ci scusiamo con i lettori per la crudezza delle immagini, reperite nel web, che abbiamo voluto affiancare ai versi di Reno Bromuro.  Esse non lasciano immaginare nient’altro di più di ciò che rappresentano: ovvero quello che rimane dietro alle guerre di ogni tempo.  Sono i sogni negati ai bambini.  Di fronte a determinate realtà, talvolta, rimane davvero difficile andare “Oltrepensiero”.  Inutile nascondere questi flash legati alla perversione umana, rimuoverli dalle nostre coscienze o far finta che essi appartengano a mondi lontani.  Siano essi un monito, per gridare…   “ Basta ! ”

 

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

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BASTA ! 

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA !

BASTA 1

RICORRENZA  –  PAURA  E  RICORDI
l’armistizio e le quattro giornate di napoli

di    Reno  Bromuro

 

ARMISTIZIO

Mercoledì 8 settembre 1943, alle ore 19,30 Corrado Mantoni annunciava dalla E.I.A.R. (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) Radio Italiana, che era stato firmato l’armistizio fra l’Italia e gli Alleati; accordo che in realtà era stato sottoscritto a Cefalonia cinque giorni prima il 3 settembre 1943 ma reso pubblico per esigenze di ordine pubblico cinque giorni dopo. La stipulazione dell’accordo per la cessazione delle ostilità tra le forze alleate e l’Italia fu fatta sulla base della resa incondizionata stabilita dalla conferenza che si era tenuta ad Anfa, un sobborgo di Casablanca, nel gennaio 1943, che riunì Franklin Delano Roosevelt, sir Winston Leonard Spencer Churchill e i generali Charles-André-Joseph-Marie De Gaulle e  Henri Giraud. Durante i colloqui, fu affrontato il problema della successione di Jean Louis Xavier François Darlan ammiraglio francese che aveva collaborato con la Germania nazista, ad Algeri, durante lo sbarco angloamericano avvenuto nel 1942. Si decise di proporlo quale capo della Francia libera e dell’accordo tra Francesi di Londra e di Algeri, De Gaulle e Giraud ebbero congiuntamente il comando del Comitato francese di Liberazione Nazionale. Gli Alleati si accordarono sullo sbarco in Sicilia e si impegnarono a continuare la guerra fino alla resa incondizionata delle potenze dell’Asse (Germania, Italia e Giappone).

L’atto firmato a Anfa e che è passato alla storia con il nome “Patto di Casablanca” ed anche come “armistizio corto”, fu firmato dal generale Giuseppe Castellano e Walter Bendel Smith rispettivamente delegati del maresciallo Badoglio e del generale Eisenhower. In un secondo tempo, inoltre a  Malta il 29 settembre 1943, oltre agli impegni militari l’Italia sottoscrisse anche condizioni di carattere economico, politico e finanziario, indicate col nome di “armistizio lungo”.

Per ferragosto ritornai a Paduli per non lasciare ancora sola, almeno per la festività imminente, la più sfarzosa e caratteristica festa del Paese che per quel 1943 sarebbe stata più allegra del solito dopo l’esultanza del 25 luglio e la caduta del fascismo. Fu lì, nella cantina di don Titta, dove nonno ed altri antifascisti come lui ascoltavano radio Londra che appresi del “Patto di Casabianca”, dopo solo un’ora aver sentito dalla bocca di Corrado, l’annuncio dell’armistizio. Ma dopo l’esultanza delle persone, per le strade finalmente illuminate, anche se fiocamente, giunse la notizia dello scontro fra le truppe italiane del generale Antonio Gandin, Comandante della divisione Acqui a Cefalonia dal giugno 1943 e le truppe tedesche alle quali quelle italiane oppongono una valorosa resistenza.

Il 14 agosto ci fu un pericoloso bombardamento sulla stazione di Benevento, dove spezzoni incendiari uccisero anche parecchi padulesi che ritornavano a Paduli per le ferie estive e per la festività.

Fu allora che scrissi alcune poesie che ho inserito, senza correggere né la grammatica, né l’ortografia per non togliere niente al bambino che le aveva scritte, in una raccolta che ho intitolato “Occhi che non capivano”, una raccolta molto fortunata che ha vinto due Primi Premi, una infinità di secondi e tantissime recensioni da critici affermati.

Il 18 agosto ritornai a Napoli, avevo cinque fratelli da sfamare e da allora vissi giorni di una paura incredibile, insieme al mio principale e i suoi familiari chiusi nel Museo di San Martino. Venerdì 24 settembre come ogni mattina, alle 09,00 andavo a prendere il caffè per il principale, al Bar Sangiuliano all’angolo tra Via Scarlatti e Piazza Vanvitelli; nel Bar mi avvicinò Tonino, il nipote del mio principale, che coprendomi le orecchie mi disse di non aver paura e di non gridare, ma le ultime parole furono coperte da un forte boato: avevano fatto saltare, lui e i suoi compagni, tutti studenti liceali al Liceo Sannazzaro, il più anziano aveva vent’anni, una camionetta tedesca uccidendo i soldati a bordo.

Per ritornare a casa, abitavo in Via Pasquale Scura, separato da Piazza Carità da sessanta settanta metri, non prendevo più la funicolare ma raggiungevo la Pignasecca, scendendo per la scalinata del Petraio. Insistevo di ritornare a casa anche perché alla fine delle scale, all’angolo tra Via della Speranzella e Via Pasquale Scura, c’era una pizzeria il cui proprietario era Peppino Fiorelli autore di tante canzoni napoletane, tra i tanti successi campeggia “Simm’’e papule, Paisà” e solo per sentir parlare di poesia e di canzoni e conoscere gli autori più in voga a quell’epoca, tutti squattrinati, da Pacifico Vento, a Ettore De Mura e si vedeva un andare vieni di giovani cantanti, tra cui un giovanissimo di origine siciliana divenuto famosissimo negli anni Cinquanta Sessanta: Giacomo Rondinella.

Le Quattro Giornate di NapoliLa sera di sabato 25 settembre 1943, ritornavo a casa cantando parole che mi venivano in mente per ricordarle e scriverle poi per darle ad uno dei musicisti che avevo conosciuto nella pizzeria di Fiorelli. Giunto all’incrocio con Corso Vittorio Emanuele, e attraversato la strada, sulla sinistra, all’inizio di Via Girardi e a pochi metri dall’entrata principale dell’Ospedale Militare, c’è una fontanella (non so se c’è ancora: manco da Napoli da 25 anni) mi fermai per dissetarmi, ma un marinaio si stava rinfrescando: la sera era veramente calda e rinfrescandosi canticchiava “Sciuri, Sciuri”. Sopraggiunse una “sidecar” con due soldati tedeschi, quello ch’era seduto nella sidecar si avvicinò al marinaio e, mentre questi beveva gli sparò un colpo alla nuca. Non so come feci a non cadere per la discesa tanto correvo veloce, né il tempo che impiegai. La domenica non misi il naso fuori di casa. Ma il lunedì 27 settembre 1943, per forza di cose dovetti recarmi al lavoro, se volevo riscuotere la settimana per pagare la pensione e mangiare.

Ritornavo a casa dopo il lavoro ed essendo ancora presto, dopo tanto tempo rientravo alla pensione prima delle 19,00, Napoli si svegliò e diede ulteriore prova di eroismo. Il popolo napoletano dopo più di centoventi bombardamenti aerei, iniziava la lotta contro il tedesco invasore, una lotta che durò quattro giorni e durante le “quattro giornate di Napoli”, costrinse il presidio tedesco alla capitolazione.

I napoletani erano armati alla meglio, con vecchi fucili, pistole, bombe a mano, bottiglie incendiarie che avevano subito imparato a costruire e altre armi che si erano procurate combattendo. Il comando tedesco rimase sconcertato: non si aspettava una simile reazione iniziata appena si era sparsa la voce che un marinaio era stato freddato con un colpo di pistola, mentre stava bevendo alla fontanella che si trova all’angolo di via Girardi.

«Mentre la voce si spandeva sulla città come pioggia col sole. Fu un attimo. Tutte le strade che portavano fuori della città furono bloccate da suppellettili, che piovevano dalle finestre per ostruire il passaggio all’uscita come all’entrata». I napoletani avevano scelto la lotta aperta,eressero barricate, lanciarono bombe, tesero agguati, costringendo le truppe tedesche alla fuga e poi alla resa. Resistettero al nemico artisti, poeti, scrittori, anche Sergio Bruni, che diventerà il re della canzone napoletana, fu ferito; un proiettile gli trapassò la bocca tagliandogli la punta della lingua. Le azioni di scontro si combatterono in ogni quartiere della città per tutta la lunghezza della strada Salita di Santa Teresa degli Scalzi, fino al Vomero dai balconi e dalle finestre pioveva di tutto per alzare barricate che fossero insormontabili, espandendo la lotta all’Arenella, a Capodimonte, a Ponticelli.

I tedeschi avrebbero voluto ridurre l’abitato a cenere e fango, avevano minato, fatto saltare in aria, incendiato case, alberghi, battelli in mare, impianti di servizi, l’Archivio di Stato. Le distruzioni sarebbero state infinitamente maggiori se la popolazione non fosse coralmente insorta a sostenere gli studenti, gli operai, gli uomini più consapevoli nella lotta aperta, che avevano stabilito il loro comando nello studio del Preside del Liceo Sannazzaro. Il primo ottobre 1943 il bollettino degli  insorti comunicava che avevano partecipato all’insurrezione duemila persone, di cui 168 erano stati i patrioti caduti in combattimento, 162 i feriti, 140 le vittime tra i civili, 19 i morti non identificati, 75 gli invalidi permanenti.

Napoli s’era liberata da sola, ricevendo nel dopoguerra la medaglia d’oro alla città, quattro medaglie d’oro alla memoria, sei d’argento e tre di bronzo agli insorti.

Le quattro medaglie alle memoria furono assegnate al dodicenne Gennarino Capuozzo, che lasciò parti del corpo come bandiere appese all’albero di Piazza Carità; al tredicenne Filippo Illuminati, al diciassettenne Pasquale Formisano e al diciottenne Mario Meneghini.

mikronet

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