NEGLI ABISSI DEI TOTALITARISMI
Il treno dell’ultima notte
Rizzoli, 2008 – pp. 430
QUANDO SI MUORE DENTRO SI PUO’ REALMENTE SOPRAVVIVERE ?
di Alessandra Giannitelli
di Alessandra Giannitelli
Si può riprendere in mano la propria vita dopo anni di alienazione dalla realtà, dopo un’esperienza che ha segnato milioni di uomini e di donne, come quella dei ghetti e dei campi di concentramento?
Si può ancora nutrire una qualche speranza di vita normale? È ancora possibile parlare di Vita con la lettera maiuscola?
Sono queste le domande che animano Il treno dell’ultima notte e alle quali Dacia Maraini, attingendo anche a reminiscenze autobiografiche, tenta di dare una risposta.
È il 1956. Il libro si apre con il lento percorso di un treno verso l’Est dell’Europa, tra immagini e odori della guerra fredda.
Amara, giovane giornalista, è diretta ad Auschwitz-Birkenau, alla ricerca di Emanuele, il suo inseparabile compagno di giochi di cui ha perso le tracce tredici anni prima, quando insieme alla sua famiglia è stato deportato nel campo di concentramento. Ma deve anche testimoniare il dolore e le difficoltà di un popolo diviso da una guerra imposta dal potere, alla quale tenta disperatamente di sopravvivere giorno per giorno. Così, tra strazianti rievocazioni di camere a gas e cruenti scene di una Budapest in rivolta, Amara conduce ostinatamente la sua ricerca, che la spingerà verso una realtà dell’orrore, in cui si muore dentro anche quando si riesce a rimanere vivi fisicamente, in cui si finisce per smarrire completamente la percezione di sé stessi, quando salvarsi significa ignorare la sofferenza altrui, privilegiare la propria vita a scapito di quella dei propri amici.
segue …>>>
Il treno dell’ultima notte
Rizzoli, 2008 – pp. 430
QUANDO SI MUORE DENTRO SI PUO’ REALMENTE SOPRAVVIVERE ?
di Alessandra Giannitelli
di Alessandra Giannitelli
Si può riprendere in mano la propria vita dopo anni di alienazione dalla realtà, dopo un’esperienza che ha segnato milioni di uomini e di donne, come quella dei ghetti e dei campi di concentramento?
Si può ancora nutrire una qualche speranza di vita normale? È ancora possibile parlare di Vita con la lettera maiuscola?
Sono queste le domande che animano Il treno dell’ultima notte e alle quali Dacia Maraini, attingendo anche a reminiscenze autobiografiche, tenta di dare una risposta.
È il 1956. Il libro si apre con il lento percorso di un treno verso l’Est dell’Europa, tra immagini e odori della guerra fredda.
Amara, giovane giornalista, è diretta ad Auschwitz-Birkenau, alla ricerca di Emanuele, il suo inseparabile compagno di giochi di cui ha perso le tracce tredici anni prima, quando insieme alla sua famiglia è stato deportato nel campo di concentramento. Ma deve anche testimoniare il dolore e le difficoltà di un popolo diviso da una guerra imposta dal potere, alla quale tenta disperatamente di sopravvivere giorno per giorno. Così, tra strazianti rievocazioni di camere a gas e cruenti scene di una Budapest in rivolta, Amara conduce ostinatamente la sua ricerca, che la spingerà verso una realtà dell’orrore, in cui si muore dentro anche quando si riesce a rimanere vivi fisicamente, in cui si finisce per smarrire completamente la percezione di sé stessi, quando salvarsi significa ignorare la sofferenza altrui, privilegiare la propria vita a scapito di quella dei propri amici.
segue …>>>
Una narrazione al presente, quasi a voler suggerire la triste attualità e l’irreversibilità che percorre le descrizioni degli scempi della Shoah. Il lettore si ritrova coinvolto nelle vicende della protagonista, si ritrova a guardare attraverso gli occhi di Amara come se fossero i suoi, a sentire sulla propria pelle gli effetti di una persecuzione devastante ripercorsa attraverso i ricordi di chi vi è miracolosamente sopravvissuto.
Gli interrogativi che Amara si pone di fronte alle testimonianze di chi la Seconda Guerra Mondiale l’ha vissuta, con tutte le conseguenze che ne derivano, sembrano rivolgersi al lettore, suggerendo innumerevoli spunti di riflessione.
Cosa rimane quindi di tanta sofferenza? Come sopravvivervi? Soprattutto, si sopravvive davvero?
Forse allora una risposta vera e propria non esiste. Forse è addirittura inutile cercarla. Probabilmente esiste soltanto il diritto inviolabile alla memoria e la doverosa intangibilità di una ferita troppo profonda, che stenta e stenterà sempre a rimarginarsi del tutto.