IL RICORDO DI UN AUTORE… ANZI, DI UN UOMO…
…riscoprirsi, per ritrovarsi ogni volta, senza mai smettere di cercarsi. È come se, attraverso la propria scrittura, raccontasse l’inesplicabile, scrutando la propria interiorità fin nelle pieghe più intime di sé.
C E S A R E P A V E S E :
L’ E N I G M A D I U N A V I T A T R A S C R I T T U R A E R E A L T A’
di Alessandra Giannitelli
Nel giorno del centenario della nascita di Cesare Pavese, è inevitabile tracciare un breve ricordo di un autore, anzi, di un uomo, che ha dato molto – addirittura sé stesso – alla letteratura.
L’opera di Pavese, come d’altronde la sua vita, si dispiega attraverso molteplici aspetti intrecciati tra loro al punto da comporre l’enigmaticità del suo pensiero e delle sue concezioni esistenziali.
Si direbbe che la sua vita sia stata LA VITA. Nelle sue debolezze, incertezze, paure, domande, si specchiano quelle di ogni uomo che si soffermi anche solo per un istante a riflettere, a ripensare i propri giorni, i ricordi, le esperienze, a meditare sul proprio presente ma anche sull’incertezza del futuro. Nelle opere pavesiane, dai giovanili versi di Lavorare stanca a La luna e i falò, vi è il riflesso nitido del ragazzo di S.Stefano Belbo, dell’uomo che torna continuamente su sé stesso, sulle proprie radici, sui luoghi che lo hanno segnato, per riscoprirsi, per ritrovarsi ogni volta, senza mai smettere di cercarsi. È come se, attraverso la propria scrittura, Pavese raccontasse l’inesplicabile, scrutando la propria interiorità fin nelle pieghe più intime di sé.
L’impressione che si ha leggendo i suoi romanzi, le sue poesie, i suoi racconti, è quella di un uomo che nella scrittura plasma sé stesso. A questo plasmare la propria interiorità, contribuisce in maniera consistente il rapporto dello scrittore con i luoghi che hanno segnato la sua crescita esistenziale e intellettuale. I cieli, i poderi, le cascine, le amate Langhe: ancora radici, appartenenza, memoria. Ancora specchio di sé.
«Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché esse non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce fossero in Piemonte, saprei bene però assorbirle in un’immagine e dar loro un significato. […] Certamente dev’essere possibile, anche per me, far poesia su materia non piemontese di sfondo. Dev’essere, ma sinora non è stato quasi mai. Ciò significa che non sono ancora uscito dalla semplice rielaborazione dell’immagine materialmente rappresentata dai miei legami d’origine con l’ambiente […] Ma è poi davvero un residuo oggettivo o sangue indispensabile?» (Il mestiere di vivere, 10 ottobre 1935).
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…riscoprirsi, per ritrovarsi ogni volta, senza mai smettere di cercarsi. È come se, attraverso la propria scrittura, raccontasse l’inesplicabile, scrutando la propria interiorità fin nelle pieghe più intime di sé.
C E S A R E P A V E S E :
L’ E N I G M A D I U N A V I T A T R A S C R I T T U R A E R E A L T A’
di Alessandra Giannitelli
Nel giorno del centenario della nascita di Cesare Pavese, è inevitabile tracciare un breve ricordo di un autore, anzi, di un uomo, che ha dato molto – addirittura sé stesso – alla letteratura.
L’opera di Pavese, come d’altronde la sua vita, si dispiega attraverso molteplici aspetti intrecciati tra loro al punto da comporre l’enigmaticità del suo pensiero e delle sue concezioni esistenziali.
Si direbbe che la sua vita sia stata LA VITA. Nelle sue debolezze, incertezze, paure, domande, si specchiano quelle di ogni uomo che si soffermi anche solo per un istante a riflettere, a ripensare i propri giorni, i ricordi, le esperienze, a meditare sul proprio presente ma anche sull’incertezza del futuro. Nelle opere pavesiane, dai giovanili versi di Lavorare stanca a La luna e i falò, vi è il riflesso nitido del ragazzo di S.Stefano Belbo, dell’uomo che torna continuamente su sé stesso, sulle proprie radici, sui luoghi che lo hanno segnato, per riscoprirsi, per ritrovarsi ogni volta, senza mai smettere di cercarsi. È come se, attraverso la propria scrittura, Pavese raccontasse l’inesplicabile, scrutando la propria interiorità fin nelle pieghe più intime di sé.
L’impressione che si ha leggendo i suoi romanzi, le sue poesie, i suoi racconti, è quella di un uomo che nella scrittura plasma sé stesso. A questo plasmare la propria interiorità, contribuisce in maniera consistente il rapporto dello scrittore con i luoghi che hanno segnato la sua crescita esistenziale e intellettuale. I cieli, i poderi, le cascine, le amate Langhe: ancora radici, appartenenza, memoria. Ancora specchio di sé.
«Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché esse non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce fossero in Piemonte, saprei bene però assorbirle in un’immagine e dar loro un significato. […] Certamente dev’essere possibile, anche per me, far poesia su materia non piemontese di sfondo. Dev’essere, ma sinora non è stato quasi mai. Ciò significa che non sono ancora uscito dalla semplice rielaborazione dell’immagine materialmente rappresentata dai miei legami d’origine con l’ambiente […] Ma è poi davvero un residuo oggettivo o sangue indispensabile?» (Il mestiere di vivere, 10 ottobre 1935).
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Pavese stesso testimonia quindi, con la propria scrittura, lo stretto e insanabile legame che lo unisce inesorabilmente a S.Stefano Belbo ma anche a Torino e al Piemonte in senso lato, parlandone come di una completa identificazione uomo-paesaggio.
«Che tutte le mie immagini non siano altro che uno sfaccettamento ingegnoso dell’immagine fondamentale: quale il mio paese tale io? […] O non piuttosto scorrono semplicemente tra me e il Piemonte relazioni, alcune coscienti e altre inconsce, che io oggettivo e drammatizzo come posso in immagini: in immagini-racconto? […] Ed io esprimo le cose spirituali con racconti di cose materiali e viceversa?» (Il mestiere di vivere, 11 ottobre 1935).
In quei luoghi ritrova il ragazzo, gli affetti, le emozioni, le speranze di un tempo. Tra quelle colline torna incessantemente – come in un rifugio, l’unico – a cullare la propria memoria, in un continuo recupero delle proprie radici, per poi arrivare ad una sorta di oraziana contrapposizione campagna/città. «Non solo un gioco di immagini nel ricordare ma una riappropriazione di un tempo che rimane nella nostalgia. Il dolore resta. Un dolore che è dentro la vita. Ma è dentro anche i linguaggi della vita. È dentro la letteratura che non dimentica, e Pavese lo sapeva bene, la quotidiana tragedia del vivere. In questo vivere fatto di lune che cadono sul mare e di falò accesi nei tramonti e che continua a portare ricordi nonostante il tempo che lacera i giorni.» (Pierfranco Bruni, Cesare Pavese. Il mare, le donne il sentimento tragico, Pellegrini Editore, Cosenza 2008, pp.29-30).
Il tempo purtroppo non si recupera, i momenti perduti non tornano, non offrono seconde possibilità. Il vissuto, invece, viene rievocato attraverso le immagini che Pavese ci offre con la sua inconfondibile scrittura, custodito sottoforma di ricordo, come memoria indelebile di una vita irripetibile.