Claude Lelouch ospite al 32° Mar del Plata con ‘Chacun sa vie’ ricordando ‘Un uomo e una donna’
(Mariangiola Castrovilli) – Un’ora e mezzo di fila per giornalisti e pubblico per ascoltare e vedere da vicino il maestro Claude Lelouch, ospite d’onore al trentaduesimo Festival di Mardelplata dove ha portato il suo ultimo film, Chacun sa vie (2017) con Johnny Hallyday, Jean Dujardin e Christophe Lambert, dodici storie d’amore che si intrecciano durante il Festival Jazz di Beaune. Ad ottant’anni appena compiuti, Lelouch ha l’energia e lo spirito di un trentenne. Vestito di verde, elegante e disponibile ci ha regalato due ore della sua vita. Per lui la parola nei film è «il veicolo preferito tanto per le bugie che per la verità mentre gli occhi non sono altro che la verità. In cinema si possono filmare assieme, verità ed occhi, ma, per arrivare a questo risultato, bisogna fare un gran lavoro sul cervello dell’attore, convincendolo che quello che sta dicendo è la verità…».
Lelouch ama i suo attori e si vede… «infatti, li amo perché sono loro che gli spettatori vanno a vedere. Il paradosso è che quando ci parliamo, chiedo loro di non recitare, perchè la differenza sta tra quello che si dice e quello che si pensa. Ed è lì che entra in gioco la spontaneità. Ed il mio ruolo sta proprio nell’equilibrio tra pensare e dire». Infatti Lelouch per il suo film più amato in assoluto, Un uomo e una donna, vincitore di due Premi Oscar e della Palma d’Oro a Cannes, aveva pensato a Romy Schneider che però scartò quando si rese conto che «recitava troppo. Quello che cerco in effetti è riflettere un profumo di verità, una cosa molto complessa perché è il prezzo per instaurare la fiducia con l’attore o l’attrice». Lei infatti lavora molto con gli stessi attori… «Certo, perché mi piace farlo con quelli in cui ho piena fiducia. E quando loro si fidano di me, quando s’instaura la fiducia, è lì che avviene il miracolo. Altrimenti è solo una lotta…».
Lelouch ed il cinema… «La mia è una famiglia di ebrei algerini, perseguitata dai nazisti. Così mia madre invece di mandarmi a scuola mi portava al cinema per nascondermi. La sala mi ha salvato letteralmente la vita. Dopo la guerra però iniziai ad andare a scuola… cosa che si trasformo subito in un incubo perché non ero abituato, così scappavo e, il più delle volte, marinavo le lezioni per andare a vedere un film. Non fui mai promosso… Alla vigilia della maturità mi alzai durante la notte e sentii mio padre dire alla mamma “se lo bocciano ancora, gli compro una cinepresa così ce lo leviamo dai piedi”. Chiaro che la mattina dopo feci di tutto per ottenere la… cinepresa…».
Lelouch è permesso mostrar tutto al cinema o…? «Direi di si perché la libertà è assoluta, però con garbo alleggerendo la narrazione. Certo, mi piacerebbe poter dire che non esistono tabù, che si può abbordare qualsiasi tema, a patto però di raggiungere un equilibrio. Un po’ come camminare su una corda tesa… Personalmente, sia come regista che dal punto di vista politico, sono di centro».
Claude Lelouch ed il caso… «E‘ vero, è stato il caso che ha guidato tutta la mia vita. Ed è per questo che, nei miei film, mi fa essere tanto attento a questo aspetto. Il caso è la parte irrazionale che tutti possediamo. Infatti se ci pensate, l’intelligenza ha paura di tutto, è pragmatica, calcolatrice, mentre la parte irrazionale è quella che possiede il coraggio. Nei miei film razionale ed irrazionale sono di scena, ma è l’irrazionale ad avere più forza. Per questo i miei lavori parlano più al cuore che all’intelligenza».
Ha sempre voluto fare il regista? «Assolutamente no. Da giovane avevo il mito dell’America, così partii per gli Stati Uniti, anche perché sono venuto su a western e musical. Dodici mesi però mi hanno fatto cambiare opinion. Non era più il paese dei miei sogni. Senza pensarci su troppo decisi allora di andare in Russia. Ed ecco ancora il caso, la tv canadese aveva lanciato un concorso, 10mila dollari a chi avesse raccolto le prime immagini del mausoleo di Lenin e Stalin. Per andare in Russia però bisognava esser comunisti così mi iscrissi al PC e, a Parigi, mi esercitai a filmare di nascosto. Avevo un impermeabile piuttosto ampio sotto cui tenevo la cinepresa. Partii così, in treno, con dei compagni di partito che facevano un viaggio di gruppo. Arrivato a Mosca dopo tre giorni di viaggio, ho iniziato a filmare. E ancora il caso, sulla mia strada, mi fece incontrare un tassista molto amico del capo degli studi Mosfilm. Fu il giorno più importante della mia vita. Infatti mi portò sul set di Mikhail Kalatozov, che all’epoca, nel 1957, stava girando Quando volano le cicogne. Capii così cosa volevo fare veramente nella vita. Imparando anche che l’attore principale del film è la macchina da presa».