Incontro con il regista Nathan Ambrosioni
(Mariangiola Castrovilli) – Uno dei lavori che ci è maggiormente piaciuto, durante il 33° Festival Cinematografico Internazionale di Namur, è Les Drapeaux de Papier, che per gli amanti delle traduzioni suona, Le bandiere di carta. Il suo regista Nathan Ambrosioni, ha appena diciotto anni, e questo bellissimo lavoro, non è il suo primo film. Ha iniziato infatti con The rush in tape, un lungometraggio sperimentale venuto dopo Miss you e The lake, With you, due dei suoi sbalorditivi corti e, nel 2014, firma la sceneggiatura, la fotografia, il montaggio ed ovviamente la regia del suo Hostile, un film horror, dove recitava anche – tanto per non farsi mancare nessuna esperienza – la parte di Jake.
Incontrarlo, dopo aver visto questo suo poderoso secondo lavoro, è stata un’esperienza più che interessante. Avevamo già visto nel 2015 a Cannes, Hostile, accolto con tutti gli onori e adesso Le bandiere di carta che sta facendo il giro dei festival internazionali.
«Ho cominciato ad amare il cinema fin da piccolo. Prima de Les drapeaux de papier, tutti i miei film erano stati fatti al di fuori del circuito classico ma mi hanno insegnato a scoprire i differenti mestieri della settima arte. Nel 2017, a 17 anni, ho scritto la sceneggiatura che ho poi presentato alla Sensito Films per realizzare il mio primo lungometraggio prodotto, finanziato e con veri professionisti del cinema».
Nathan com’è nata l’idea per quest’ultimo lavoro? «Leggendo un articolo sulle uscite di prigione, dove alcuni detenuti raccontavano il loro reinserimento nella vita di tutti i giorni senza nessun aiuto da parte dello stato, abbandonati a loro stessi in un mondo che, ormai, non riconoscevano più… e questo mi ha fatto venire voglia di raccontarlo per immagini».
E…? «Confesso di essere rimasto piuttosto scosso dalle loro storie, così ho cominciato a scrivere il mio soggetto. L’uscita di prigione vuol dire molte cose, ritrovare il passato, reinserimento sociale e, soprattutto, libertà. Ed era proprio di questo che volevo parlare nel mio primo film. È alla libertà che si pensa quando si diventa adulti, perché ci intriga e, magari, ci spaventa. Questo, era diventato il centro di tutti i miei pensieri, per cui era diventato evidente per me, che ne avrei fatto un film. I detenuti che hanno passato parecchio tempo in prigione, ne parlano in una maniera unica perché per loro rappresenta tutto, al punto di diventare talmente complessa, da essere quasi un qualcosa di materiale. Sono state proprio queste loro testimonianze a guidarmi nel mio film».
Questo il punto di partenza e poi? «Il desiderio di fare di questo tema una relazione fraterna è, invece, molto più personale. Sono cresciuto insieme a mia sorella e Charlie, la sorella di Vincent, le somiglia parecchio. Mia sorella è stata una fonte d’ispirazione per tutta la mia infanzia e, raccontare una storia di fratellanza, divenne per me, indispensabile. Questo mi ha permesso di ritrovarmi nella storia, di usare sensazioni personali per raccontare la relazione tra Charlie e suo fratello, i loro sentimenti e il loro vissuto in comune».
E i personaggi…? «Volevo che gli attori avessero uno spazio notevole in questo lavoro, che fossero il più vicino possibile ai personaggi. Volevo che ci fosse, con loro, un’identità totale. Solo questo, intrigandomi, mi interessava. Il loro realismo era essenziale per capire i loro personaggi e riuscire ad amarli. Con gli attori abbiamo fatto un lavoro notevole perché trasmettessero il loro modo d’essere ai personaggi. I loro sguardi, i loro respiri ad un soffio dalla macchina da presa, e, quasi sempre, ripresi in primo piano».
Com’è stata quest’esperienza con degli attori professionisti? «importantissima anche perché è stata la mia prima esperienza con dei professionisti. Abbiamo diviso molto tutti e tre insieme, e questo mi ha fatto veramente capire quanto mi piaccia lavorare con gli attori. Ho voluto costruire un film con la macchina sempre su di loro, e le sequenze in movimento, sono state, a volte, come una coreografia improvvisata».