AL FESTIVAL DI CANNES I SILENZI DEL PALESTINESE SULEIMAN
Film autobiografico dove viene tratteggiata la vita degli arabo-israeliani, ovvero quei palestinesi rimasti a vivere a casa propria. «Il silenzio è sovversivo per eccellenza» afferma il regista ed anche attore nella pellicola. «Tutti i governi lo temono, perché è un’arma di resistenza. Molti però ne sono intimiditi perché si sentono destabilizzati, privati della loro identità. Il silenzio invece permette d’interrogarsi, ma mette a disagio»
T I M E T H A T R E M A I N S
di Mariangiola Castrovilli
Ancora un film a capitoli in competizione qui a Cannes, Time that remains del regista palestinese, Elia Suleiman qui anche come attore che racconta in maniera autobiografica la vita della sua famiglia dal 1948 ad oggi. Ironico il film ed autoironico Elia proprio per questa sua staticità imbambolata, esatto contrario di Barat, esaltato chiacchierone dalle battute a ripetizione, qui sono invece i silenzi che dominano lo schermo con gli sguardi perduti dietro i ricordi.
La storia inizia nel 1948 con gli appunti scritti del padre e le lettere della madre ai parenti che hanno lasciato il paese quando Nazareth diventa territorio israeliano. Mescolando i suoi ricordi personali a quelli dei genitori Suleiman dipinge un panorama della vita quotidiana di questi ‘arabo-israeliani’, ovvero quei palestinesi rimasti a vivere a casa propria.
Suleiman come nascono i suoi film ?
«Dall’osservazione della vita che vivo ogni giorno, visto che i miei film sono autobiografici. Porto sempre con me un libricino che riempio di appunti sulle cose semplici del vivere quotidiano, come per esempio il soffio del vento attraverso la chioma di un albero. Un terreno di emozioni e di suoni dove attingere per i miei film, con la sincerità dovuta a me stesso e agli spettatori».
Time that remain è un film politico ?
«La politica gioca un ruolo importante in una zona sensibile come il mio paese, visto che la Palestina è oggetto di una sovraesposizione mediatica sia di destra che di sinistra. Quello che voglio mostrare qui sono momenti di intimità di una famiglia, con l’unico intento di piacere al pubblico seguendo una certa verità cinematografica. Se questo susciterà una po’ di curiosità politica gli spettatori, invece di restarsene seduti davanti al televisore, potranno andare in libreria o in biblioteca per documentarsi».
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Film autobiografico dove viene tratteggiata la vita degli arabo-israeliani, ovvero quei palestinesi rimasti a vivere a casa propria. «Il silenzio è sovversivo per eccellenza» afferma il regista ed anche attore nella pellicola. «Tutti i governi lo temono, perché è un’arma di resistenza. Molti però ne sono intimiditi perché si sentono destabilizzati, privati della loro identità. Il silenzio invece permette d’interrogarsi, ma mette a disagio»
T I M E T H A T R E M A I N S
di Mariangiola Castrovilli
Ancora un film a capitoli in competizione qui a Cannes, Time that remains del regista palestinese, Elia Suleiman qui anche come attore che racconta in maniera autobiografica la vita della sua famiglia dal 1948 ad oggi. Ironico il film ed autoironico Elia proprio per questa sua staticità imbambolata, esatto contrario di Barat, esaltato chiacchierone dalle battute a ripetizione, qui sono invece i silenzi che dominano lo schermo con gli sguardi perduti dietro i ricordi.
La storia inizia nel 1948 con gli appunti scritti del padre e le lettere della madre ai parenti che hanno lasciato il paese quando Nazareth diventa territorio israeliano. Mescolando i suoi ricordi personali a quelli dei genitori Suleiman dipinge un panorama della vita quotidiana di questi ‘arabo-israeliani’, ovvero quei palestinesi rimasti a vivere a casa propria.
Suleiman come nascono i suoi film ?
«Dall’osservazione della vita che vivo ogni giorno, visto che i miei film sono autobiografici. Porto sempre con me un libricino che riempio di appunti sulle cose semplici del vivere quotidiano, come per esempio il soffio del vento attraverso la chioma di un albero. Un terreno di emozioni e di suoni dove attingere per i miei film, con la sincerità dovuta a me stesso e agli spettatori».
Time that remain è un film politico ?
«La politica gioca un ruolo importante in una zona sensibile come il mio paese, visto che la Palestina è oggetto di una sovraesposizione mediatica sia di destra che di sinistra. Quello che voglio mostrare qui sono momenti di intimità di una famiglia, con l’unico intento di piacere al pubblico seguendo una certa verità cinematografica. Se questo susciterà una po’ di curiosità politica gli spettatori, invece di restarsene seduti davanti al televisore, potranno andare in libreria o in biblioteca per documentarsi».
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Come sono stati i suoi rapporti con i genitori?
«Molto particolari, direi. Da bambino stavo quasi sempre fuori e poi sono partito per l’estero. Al mio ritorno ho reinventato il nostro rapporto impostandolo più che altro sull’amicizia.
Con mio padre andavo a pesca, a passeggiare e facevamo insieme molte cose. La musica che ho utilizzato nel film me l’ha fatta scoprire lui. Adorava queste canzoni, mentre io allora suonavo la batteria in un gruppo rock ed ero tutto preso da Led Zeppelin. Ad essere onesto non avevo i gusti di mio padre, solo poco a poco ho imparato ad apprezzare questo tipo di musica. Papà mi comprava cassette e libri sulla musica araba. Stessa simbiosi con i vestiti che ci scambiavamo. Quando è morto ho scoperto che il suo guardaroba era pieno di cose mie, mentre io portavo i suoi».
Il silenzio come segno distintivo del suo lavoro…
«Trovo il silenzio molto ‘cinegenico’. Il silenzio è sovversivo per eccellenza. Tutti i governi lo temono, perché è un’arma di resistenza.
Molti però ne sono intimiditi perché si sentono destabilizzati, privati della loro identità. Il silenzio invece permette d’interrogarsi, ma mette a disagio».
Il silenzio allora come respiro del cinema ?
«Direi molto di più. E’ un momento di condivisione, di scambio.
Ed è privilegio dello spettatore vestire questo silenzio di parole e prendere così parte alla creazione dell’immagine».