CIASCUNO DI NOI ASPETTA UN PROPRIO . . .
La persistente attesa di qualcosa che non avverrà, l’assenza di certezze, di punti di riferimento. Il mancato sopraggiungere, l’inesistenza di qualcuno o qualcosa che si continua ad aspettare all’infinito. Cosa rappresenta realmente la sospensione temporale? Fiducia, false speranze, illusioni. Ciascuno di noi aspetta un proprio Godot, intimo o di ampio respiro che sia, a cui attribuisce un’identità ben precisa o un insieme di significati. Il destino, la morte, Dio. Forse la vita stessa. Sono tutte interpretazioni alle quali si presta l’inesistente protagonista della tragicommedia beckettiana e che rendono il teatro dell’assurdo di En attendant Godot (Aspettando Godot) facilmente associabile alla realtà di tutti i giorni, alla crisi d’identità e all’incomunicabilità che sembrano tristemente prevalere. Non resta allora che protrarsi oltre il tempo, imparando pian piano a viverlo, magari avvalendosi di quella magica dimensione parallela che i libri ci offrono.
I L V A C U O D I L E G U O D E L D O M A N I
di Alessandra Giannitelli
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Oh mole immensa di dolore che addensa il Tempo nello Spazio! A che destino ignoto si soffre? Va dispersa la lacrima che versa l’Umanità nel vuoto? da La via del rifugio di Guido Gozzano |
“[…] qualcosa sempre circola nell’aria – / se ne va ma poi ritorna. Basta/ lasciare che le vele seguano/ gli autofagi capricci di Crono/ e del suo vento. Basta allentare/ la presa delle cime, lasciar colare/ sulle tempie il tempo,/ senza spavento” (Intorno a me): è forte e difficilmente trascurabile il riferimento – intenzionale o meno – all’interrogativo gozzaniano, nella riflessione che Marcoaldi affronta in Il tempo ormai breve, una sorta di antologia poetica del tempo nelle sue infinite raffigurazioni.
C’è un tempo per ricordare, un tempo per rimpiangere, per rinnegare, un altro ancora per sperare, per immaginare i giorni a venire, per sognare. Marcoaldi li racchiude e li rappresenta tutti, cristallizzandoli in una sorta di collage poetico, la cui immagine conclusiva sembra essere l’ambiguità del tempo in quanto tale, la sua diversa interpretazione basata sulle stagioni della vita, sulle esperienze personali, i ricordi, le aspettative.
segue … >>>
La persistente attesa di qualcosa che non avverrà, l’assenza di certezze, di punti di riferimento. Il mancato sopraggiungere, l’inesistenza di qualcuno o qualcosa che si continua ad aspettare all’infinito. Cosa rappresenta realmente la sospensione temporale? Fiducia, false speranze, illusioni. Ciascuno di noi aspetta un proprio Godot, intimo o di ampio respiro che sia, a cui attribuisce un’identità ben precisa o un insieme di significati. Il destino, la morte, Dio. Forse la vita stessa. Sono tutte interpretazioni alle quali si presta l’inesistente protagonista della tragicommedia beckettiana e che rendono il teatro dell’assurdo di En attendant Godot (Aspettando Godot) facilmente associabile alla realtà di tutti i giorni, alla crisi d’identità e all’incomunicabilità che sembrano tristemente prevalere. Non resta allora che protrarsi oltre il tempo, imparando pian piano a viverlo, magari avvalendosi di quella magica dimensione parallela che i libri ci offrono.
I L V A C U O D I L E G U O D E L D O M A N I
di Alessandra Giannitelli
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Oh mole immensa di dolore che addensa il Tempo nello Spazio! A che destino ignoto si soffre? Va dispersa la lacrima che versa l’Umanità nel vuoto? da La via del rifugio di Guido Gozzano |
“[…] qualcosa sempre circola nell’aria – / se ne va ma poi ritorna. Basta/ lasciare che le vele seguano/ gli autofagi capricci di Crono/ e del suo vento. Basta allentare/ la presa delle cime, lasciar colare/ sulle tempie il tempo,/ senza spavento” (Intorno a me): è forte e difficilmente trascurabile il riferimento – intenzionale o meno – all’interrogativo gozzaniano, nella riflessione che Marcoaldi affronta in Il tempo ormai breve, una sorta di antologia poetica del tempo nelle sue infinite raffigurazioni.
C’è un tempo per ricordare, un tempo per rimpiangere, per rinnegare, un altro ancora per sperare, per immaginare i giorni a venire, per sognare. Marcoaldi li racchiude e li rappresenta tutti, cristallizzandoli in una sorta di collage poetico, la cui immagine conclusiva sembra essere l’ambiguità del tempo in quanto tale, la sua diversa interpretazione basata sulle stagioni della vita, sulle esperienze personali, i ricordi, le aspettative.
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“Quell’attesa speranzosa eppure dolente “quando nulla/ si attende e tutto è già compiuto. /Quando miracolosamente il mondo,/ per un momento, sta avanti/ a noi ordinato” (L’infra-tempo), quando nient’altro è permesso se non immaginare, creare mentalmente ciò che potrebbe essere, oppure no.
Ecco allora che il passato diventa, arbitrariamente, un fardello di cui pentirsi o un paradiso da rimpiangere, fondendosi a volte con presente e futuro.
“Da dove viene questa paura arcana/ che a ogni risveglio mi stringe/ con un brontolio rabbioso il petto?” (La paura), si domanda l’autore, impaziente – ma al contempo rassegnato – di scrollarsi di dosso quel fastidioso mugugno interiore che appesantisce l’attesa e vanifica il trascorso.
A volte non resta che dimenticare – o meglio, obliare – per poter proseguire, perché la memoria è forse il primo segnale di quel malessere informe e tenace.
Considerazioni che sembrano trovare respiro soltanto nell’immagine di un consapevole – eppur sofferto – abbandono al corso del tempo, in qualunque stagione della propria vita.
Una necessaria apatia – per tornare a Gozzano – che ci permetta di sopravvivere al ricordo e all’attesa. Perché il tempo non offre soluzioni, solo interrogativi irrisolvibili, se non a posteriori, sempre troppo tardi.
“Ecco un bel modo di finire:/ nell’esatto momento in cui/ il nuovo sta per arrivare” (L’ultima goccia d’olio).